Un'iniziativa che condivido

Questo blog è, per questa sezione, "gemellato" con il blog: http//sosmammo.blogspot.com di Cristiano Camera. Pertanto sugli argomenti della sezione "In - dipendenza" tutti i commenti che verrano postati saranno reindirizzati anche sul suo blog. E' sembrata una buona idea per aumentare la discussione e fare circolare le idee.

martedì 12 gennaio 2010

In - dipendenza


Sempre più spesso leggiamo sui giornali notizie relative al sequestro di quantitativi di cocaina, come pure inchieste allarmati riferite al dilagare del consumo di sostanze stupefacenti da parte di porzioni sempre maggiori di popolazione.

Mi piacerebbe, allora, cercare di approfondire meglio il fenomeno della dipendenza o, per definirlo più precisamente, sia pure con termini anglofoni, i “comportamenti di addiction” . Cerco di spiegarmi meglio: in realtà parlare di “dipendenza” ci porta a focalizzare l’attenzione su un aspetto “patologico” del problema, mentre quando parliamo di comportamenti di addiction la nostra attenzione si può meglio concentrare sugli aspetti legati alle scelte. Il comportamento, infatti, a meno che non sia una risposta di tipo “riflesso”, implica una consapevolezza da parte del soggetto che sceglie un’azione piuttosto che un’altra.

Quando ci si avvicina alle sostanze stupefacenti, di solito, e nella maggioranza dei casi è così, lo si fa per la curiosità di provare un brivido, un’esperienza di alterazione, di “sballo”. La letteratura su questo argomento ci fornisce dati che possono spaventare. Cito, a titolo di esempio, i dati dell’osservatorio dipendenze dell’Asl Città di Milano: INDAGINE DI POPOLAZIONE SUL CONSUMO DI SOSTANZE PSICOTROPE NELLA CITTÀ DI MILANO - SURVEY 2007 – che riporto testualmente per le parti relative al consumo di cannabis e cocaina:

Il consumo di derivati della cannabis hanno valori generalmente sensibilmente elevati (fino al 70% per i maschi 25-34 anni [...]) e in particolare, nei soggetti giovani, più della metà ha dichiarato di aver consumato cannabis nella vita, mentre il 40% circa lo ha fatto recentemente e il 25% circa lo ha consumato nei trenta giorni precedenti alla compilazione dell’intervista

Dopo la cannabis, la cocaina è lo stupefacente più consumato dal campione intervistato. Pur mostrando i valori più alti per la classe 25-34 anni, si nota come anche i più giovani raggiungano valori considerevoli. Nei confronti del 2004 si nota un modesta ma diffusa tendenza all’aumento delle prevalenze

Uno degli stereotipi più diffusi sull’uso di droghe recita che “tutti coloro che usano le canne poi passano all’eroina” (o comunque alle “droghe pesanti”). Ovviamente, e per fortuna aggiungo io, le cose non stanno proprio così e i dati lo dimostrano. Se noi proviamo a cambiare l’ordine delle parole “tutti coloro che usano droghe pesanti hanno usato le canne”, allora ciò che leggiamo diventa maggiormente credibile.
Questo suggerisce alcune riflessioni:

1. l’atteggiamento di curiosità è tipico delle fasce giovanili della popolazione, il che porta ad una massiva sperimentazione dei cannabinoidi in generale

2. solo una parte di questi soggetti prova anche altri tipi di droga: perché?

3. perché la seconda sostanza, per diffusione del consumo, è la cocaina?

Quello che mi piacerebbe fare, con questo spazio, è aprire una discussione su queste riflessioni che ci porti ad approfondire un tema su cui esistono allarmismi, paure, e discussioni accademiche. Ciò che raramente viene fatto, però, è riferire le problematiche di dipendenza a noi stessi, alle nostre esperienze e al nostro mondo ritenendo che sia un “problema di altri”.
Siccome ho aperto questo post con l’accento sul comportamento di addiction, mi piacerebbe discutere certamente di droghe, ma anche di internet, di dipendenza affettiva e dipendenza alimentare, di sport estremi.. di tutto ciò, insomma, che ci fa riflettere sui nostri comportamenti in diversi ambiti della vita quotidiana.

9 commenti:

Cristiano Camera ha detto...

Cara Lella, ultimamente sul mio blog mi sto occupando di amicizia fra genitori e figli e ho in programma di ampliare questa rubrica perchè il tema sta diventando sempre più stimolante. Alla base della relazione di amicizia, per come la penso io, ci deve essere la condizione della reciprocità. Cosa che manca in qualsiasi comportamento di addiction. Dipendere da qualcosa o da qualcuno è una cosa terribile e dannosa e dimostra il poco senso di rispetto che nutriamo verso noi stessi.
Persino nel rapporto genitori-figli, non amo la dipendenza degli uni nei confronti degli altri, e auspico invece una relazione paritaria, anche se basata sul confronto e sulla critica.
C'è chi sostiene che figli e genitori non possano e non debbano essere amici, in quanto la loro relazione non può e non deve essere paritetica, con i primi dipendenti dei secondi.
Ecco, io non sono affatto d'accordo con questa visione: non voglio e non mi piacciono i figli 'genitori-addicted'.

Lella ha detto...

Caro Cristiano, il tuo punto di vista è stimolante, anche se mi trova d'accordo solo in parte. In effetti la condizione di parità di cui parli è suggestiva, ma non proprio realistica. Come può essere paritario un rapporto in cui io detto le regole, in quanto genitore e responsabile della tua educazione, e tu sei "costretto" a rispettarle. Certo io posso spiegartele, aprire con te un confronto, ma alla fine, che tu lo voglia o meno, sei costretto a fare come dico io. Questo serve ai figli, quando sono piccoli, ad interiorizzare le regole (cosa che permetterà loro di distinguere il bene dal male), e quando sono adolescenti a giocare il classico "elaastico", contestando, arrabbiandosi e differenziandosi. E' attraverso questo gioco che si riesce ad affermare la propria identità. Sono invece d'accordo sul fatto che questa relazione non sia e non debba essere, una relaizone di "dipendenza", anzi, al contrario, credo che sia la vera e genuina relazione di Indipendeza e Identità che porta ciascun individuo a diventare Uomo.

Cristiano Camera ha detto...

Cara Lella, per me un rapporto è paritario quando si dialoga e si discute e in quanto i due interlocutori posso esprimere liberamente i propri punti di vista, giungendo a un risultato soddisfacente per entrambi. Per quanto riguarda la successiva decisione da prendere, la cosiddetta 'sintesi', essa sarà il risultato delle reciproche posizioni, non una forzatura. Nella maggior parte dei casi, la sintesi, la ragione, sarà più vicina al genitore (che in teoria e date le proprie maggiori esperienze dovrebbe sapere più cose del figlio). Soltanto quando il figlio non converrà con le ragioni (la ragione) del genitore, quest'ultimo lo forzerà a obbedire.
Il rapporto, a quel punto, non sarà più paritario? Non credo, perchè il primo che avrà 'violato' il patto del dialogo e del ragionamento sarà stato il figlio. Il quale, in tal modo, si sarà posto su un piano anti dialettico nei confronti del genitore e avrà adoperato per primo una forzatura. Alla quale ne avrà contrapposta una anche il genitore, probabilmente entrando così in una sfera di (temporanea) conflittualità col figlio ma ristabilendo in realtà una relazione paritaria, perlomeno sul piano delle reciproche forzature.
E' chiaro, sarebbe stato preferibile non giungere a tanto, ma perchè anche la conflittualità e le forzature rimangano parte di una relazione paritaria, è necessario che alla forzatura non si sostituisca la forza, maggiore, del genitore. Insomma, la forzatura sia 'calibrata' su quella del piccolo.
Poi, può succedere che il figlio abbia ragione e il genitore torto. E qui è il genitore a dover compiere un gesto enorme di umiltà e riconoscere il proprio errore: così facendo il genitore, anche qui verrebbe rispettata la parità del rapporto.

Lella ha detto...

Quando un individuo ha torto e riesce ad ammetterlo, dimostra di essere in grado di non confondere il riconoscimento dei propri limiti con la debolezza. Questa capacità appare tanto più importante con i propri figli, in relazione al fatto che acquisisce anche una valenza educativa. In relazione alla declinazione di questo nostro confronto, vorrei rilanciare il dibattito sulla questione della dipendenza/indipendeza. Il rischio forte che intravedo nella generazione di genitori che ho occasione di conoscere, sia al servizio di Tutela Minori che in consultazione,è quello in un certo senso opposto a quanto paventato da Cristiano: non figli "genitori addicted", ma genitori "figli addicted". Sembrerebbe una questione di lana caprina,o un puro esercizio lessicale, se non fosse che, quando si perdono le distanze (dipendere è perdere le distanze tra me e l'altro), non si è più in grado permettere all'altro quegli spazi propri che sono il nucleo centrale della differenziazione.
Un esempio che mi torna alla mente è quello di una madre che, al rifiuto del figlio di andare a scuola, si ritrova nell'incapacità di mantenere una funzione educativa, e quindi di affrontare il conflitto, per timore di "perdere" l'affetto del figlio.
E' suggestiva dunque l'idea che tu proponi di un rapporto tra pari, ma richede una maturità e un equilibrio tali da permettere di non perdere mai di vista che si è genitori con tutti gli oneri che questo ruolo comporta.
Infine vorrei ringraziare Cristiano per l'iniziativa di "gemellaggio" di due blog, nati con presupposti differenti, ma che in comune hanno l'amore e l'interesse per la discussione e il confronto.

Cristiano Camera ha detto...

Su questo punto sono completamente d'accordo con Lella: "quando un individuo ha torto e riesce ad ammetterlo, dimostra di essere in grado di non confondere il riconoscimento dei propri limiti con la debolezza". E concordo anche sul fatto che una tale capacità di ammissione dei genitori sia un buon insegnamento per i figli. Evidentemente, così come esistono genitori 'figli-addicted', ci sono anche figli 'genitori-addicted'. Ma il rapporto fra pari di cui parlo non contempla, in nuce, tale possibilità, né da una parte e né dall'altra. Se così non fosse, infatti, si tratterebbe di un rapporto di dipendenza e non basato sulla parità. Parità e onestà che deve essere mantenuta, oltre che principalmente nel dialogo, anche nelle situazioni di conflittualità. Dove nessuno dei due contendenti deve mai arrendersi, se non convinto, ma eventualmente deve concordare, una volta persuaso, con le ragioni dell'altro. Il che non è dipendenza, ma una decisione liberamente presa. Cristiano

Lella ha detto...
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Lella ha detto...

Antonella: io penso che il rapporto genitori figli si evolve nel tempo: quando i bambini sono piccoli sono dipendenti dai genitori, dal momento in cui i figli diventano intelocutori dei genitori il rapporto diventa alla pari, e successivamente quando i genitori invecchiano i ruoli si ribaltano e diventano dipendenti dai figli che spesso tendono a liberarsene come un peso. Fortunatamente il periodo del rapporto alla pari è quello più lungo e il confronto è necessario anche se in alcuni casi si arriva allo scontro verbale per le posizioni assunte.

Cristiano Camera ha detto...

Cristiano: cara Antonella, la tua è una bella osservazione. Esistono infatti situazioni simili a quelle che descrivi. E sono anche le più comuni. Però ci sono anche situazioni nelle quali i piccoli non dipendono dai genitori, quando cioè, anche se figli piccoli, sono ugualmente interlocutori di genitori capaci di ascoltarli e di comprenderli. Esistono inoltre circostanze nelle quali figli e genitori non hanno un rapporto paritario, nemmeno in fasce di età medie e anagraficamente vicine fra loro. Infine, ci sono figli dipendenti di genitori anche anziani. In conclusione, forse è proprio il rapporto di dipendenza quello che dura più a lungo nel tempo, non la tanto auspicata indipendenza. Comunque, non solo sono d'accordo con te sul fatto che il rapporto fra genitori e figli si evolva nel tempo, ma probabilmente anche sul fatto che la questione della dipendenza-indipendenza degli uni verso gli altri sia cosa mobile, che si trasforma l'una nell'altra continuamente.

Lella ha detto...

Concordo con Cristiano, ciascuno di noi oscilla continuamente sul un immaginario continuum dal polo della dipendenza a quello dell'indipendenza. Inoltre io penso che nessuna relazione al mondo può rimanere uguale a se stessa nel tempo. Credo che la staticità di una relazione sia in realtà una "non relazione". I rapporti, infatti, si costruiscono in una dinamica continua, fatta dai cambiamenti di ciascuno su se stesso e sull'altro. Certo è che nel tempo i rapporti mutano anche in base alle diverse esigenze che si mettono in campo ed è l'attenzione all'altro che ci permette di coglierle e di non vivere della sola idea che dell'altro ci siamo fatti.

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